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domingo, 23 de maio de 2010

Na calada da noite




A noite esconde os seus 
mistérios e seus medos.
É sentir na pele o luar
como inspiração. 
Revelando emoções 
de palavras dantes,
não proferidas.
Elas se soltam ao vento
num voo de liberdade,
em pleno céu da madrugada.
É nela que a imaginação
se transforma no seu 
âmbito desejo. 
Desvendando toda a magia
na calada da noite para
a descoberta do amor.



segunda-feira, 17 de maio de 2010

O sol




O sol que atravessa num 
mais esplêndido  pôr-do-sol
que se esconde entre as nuvens. 

Neste céu alaranjado 
que transborda uma energia 
transcendental. 

O seu fugaz que foge 
aos nossos olhos como
uma alquimia. 

segunda-feira, 10 de maio de 2010

ANALISI - Quel mondo perduto tra Nietzsche e Proust


Ad essere indicato come terminale di una svolta nel modo di trattare le grandi questioni filosofiche è il pensatore tedesco

di ANTONIO GNOLI

L'intreccio tra modernità e filosofia è una delle componenti su cui più forte è stata la riflessione negli ultimi anni. Figure come Habermas e Blumenberg hanno costruito una linea di difesa del moderno contro gli attacchi provenienti da quegli autori, in particolare Lyotard, Derrida, Baudrillard, che ne avevano con ragioni diverse, decretato la fine. Una lunga battaglia si è svolta tra chi nel moderno ha colto i motivi ancora validi di un pensiero in grado di confermare quanto da Descartes in poi la ragione umana aveva, pur tra incertezze e dubbi, costruito nei più diversi campi: dalle scienze alla società, dall'arte alla politica, dalla religione alla vita. E coloro che, avendone colto l'esaurirsi della spinta propulsiva, ne hanno denunciato il carattere autoritario e violento. È su questo sfondo conflittuale che ho letto il nuovo libro di Scalfari, la cui forza risiede nel volersi ritagliare una posizione terza che è tanto più interessante in quanto tiene conto di entrambe le sensibilità.

La modernità, avverte Scalfari, dura grosso modo quattrocento anni. In questo arco di tempo cambia il nostro rapporto con la scienza, la politica, l'economia, l'arte, la religione. È un'epoca densa di rivolgimenti nella quale declina la metafisica. Non è di questo che la filosofia si è occupata fino a quel momento? E che cosa, da questo punto in poi, ci riserverà? Tra i filosofi, che meglio hanno segnato il mondo moderno, Scalfari ne individua quattro: Descartes, Spinoza, Kant e Hegel. Non furono meno moderni, ci avverte l'autore, Hobbes, Leibniz e Hume. Ma in quelli che ha eletto a rappresentanti della modernità, ne coglie la grandiosità del disegno, la forza persuasiva del sistema, la problematicizzazione della trascendenza e dunque il diverso posto che assegnano a Dio.

Sono pagine di grande chiarezza che Scalfari dedica a questa sorta di rivoluzione filosofica che ha alle spalle un padre tanto autorevole quanto appartato: Michel de Montaigne. È lui la vera icona della modernità che, nel chiuso del suo castello, descrive negli Essais un mondo completamente nuovo: mosso, mutevole, apprezzabile e molto più grande di quanto non immagini la vecchia metafisica. Sarà quella visione relativa delle cose, osserva Scalfari, a incantare prima Diderot e poi lo stesso Goethe. Nei confronti dell'artefice dell'Encyclopedie Scalfari prova una vera attrazione. Diderot è il più inquieto tra gli illuministi. Ama le donne di spirito, combatte il potere dall'interno del potere, realizza straordinarie imprese editoriali, scrive romanzi che tutta l'Europa leggerà, si professa ateo coerente e spregiudicato. Cosa c'è, dunque, di più moderno di una tale sensibilità duttile, provocatoria, capace di mettere alla prova la ragione e dare un senso all'azione? Quella modernità che ebbe inizio con Montaigne, si conclude con Nietzsche: "L'ultimo gioco intellettuale, l'ultima playstation è Nietzsche", scrive con un'immagine efficace Scalfari.

Se la modernità ci ha insegnato a viaggiare e a relativizzare il conosciuto, se ha messo in discussione, senza tuttavia cancellarlo, il rapporto con Dio, se ha rivisto la relazione tra politica e morale, se ha assegnato all'economia un ruolo che prima non aveva e alla ragione umana un posto di tutto rispetto, se ha alimentato il dubbio e la tolleranza, se ha sottoposto la verità al controllo sperimentale, se ha dato forza al presente e al futuro, allora in che senso Nietzsche metterebbe fine a tutto questo?

Già col precedente libro Scalfari insisteva sul ruolo che l'autore dello Zarathustra aveva svolto nell'ambito della modernità. Ma si ha l'impressione che il nuovo lavoro indichi una svolta nel modo di pensare le grandi questioni filosofiche di cui Nietzsche è il terminale. "Nel mio libro L'uomo che non credeva in Dio", scrive Scalfari, "ho parlato a lungo di Nietzsche e ho creduto di capire che il suo pensiero si rifaceva al "tutto scorre nulla permane" eracliteo... Ma poi tornando a riflettere su quelle pagine, mi è sembrato che il "tutto scorre" non sia il solo principio al quale si ispira la concezione filosofica di Nietzsche. Il suo pensiero è molto più complesso e il divenire per lui rappresenta la modalità dell'essere". Con questa nuova consapevolezza si aprono questioni non marginali. La prima delle quali ci pare riconducibile a una sorta di paradossale accostamento tra Nietzsche e Montaigne. E se dunque uno, capovolgendo il sistema dei valori, chiude la modernità, l'altro - con il suo relativismo - la condanna fin dall'inizio.

C'è una seconda questione che richiama sia il rapporto di Nietzsche con la metafisica, sia il modo in cui Heidegger interpreta questa relazione. Scalfari gli dedica alcune pagine. E se capisco bene lo svolgersi del ragionamento scalfariano, Heidegger restituisce un'interpretazione "malandrina" di Nietzsche, perché occulta la soggettività del proprio sguardo. In altre parole il limite di Heidegger risiederebbe nel fatto di non dichiarare che la sua interpretazione di Nietzsche non è l'unica. Peccando così di una slealtà interpretativa tanto più grave, osserva Scalfari, in quanto "l'intera ermeneutica nicciana si basa su questo delicato rapporto tra la soggettività dell'interprete e l'oggettività della cosa interpretata". Ma è proprio questa l'accusa che Heidegger muove a tutta la tradizione della metafisica occidentale (compreso Nietzsche che fallisce nel suo tentativo di uscirne): aver posto soggetto e oggetto (diciamolo un po' alla buona) uno di fronte all'altro. Dell'autore di Essere e Tempo si possono dire molte cose, ma non che egli abbia voluto restaurare una qualche forma di metafisica.

Il libro di Scalfari si avvale di una sensibilità che lo spinge a indagare i vari livelli in cui la modernità si è resa manifesta: da quello filosofico, come si è visto, a quello letterario. Sul quale ancora una volta mostra le sue preferenze: Proust e Rilke, su tutti gli altri. È un altro modo per discendere le scale del moderno e vedere cosa si nasconde ancora nelle sue cantine. Verrebbe a questo punto voglia di chiedere: se il moderno è finito, da quale luogo noi continueremo a pensare e a parlare? Scalfari è consapevole che qualcosa di fondamentale si è rotto e, a quanto pare, non più rimediabile. Egli fiuta l'aria del nuovo che ancora non c'è, ma che irresistibile giungerà. È il destino delle epoche di aprirsi e chiudersi. Noi, moderni viviamo il paradosso, sembra dirci Scalfari, di essere dentro e fuori da quel mondo. È il nostro lungo declino, in attesa che i nuovi barbari vengano legittimati.

(07 maggio 2010)



Eugenio Scalfari viaggio nella modernità Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, " Per l'alto mare aperto" fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia -


Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, il fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia  

di ALBERTO ASOR ROSA
L'antecedente immediato di quest'ultimo libro di Eugenio Scalfari, Per l'alto mare aperto (Einaudi, pagg. 281, euro 19,50), è Incontro con io (Rizzoli, 1994). Immediato? Sono passati sedici anni, come si vede, fra l'uno e l'altro, e nel frattempo Scalfari ha pubblicato quello che definirei un romanzo allegorico, La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001) e quella che definirei un'autobiografia filosofica, L'uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), oltre, s'intende, vari altri testi di carattere più decisamente politico- economico ed impegnato. Immediato in che senso, allora? Nel senso che Incontro con io segna il punto di partenza di un lungo percorso (tornerò su questo termine) che l'Autore ha deciso non da ora di compiere attraverso la cultura della modernità, passando però, e via via sempre più instancabilmente, attraverso se stesso, attraverso "io".

Questo percorso raggiunge il suo culmine (per ora) in Per l'alto mare aperto. Il catalogo degli autori che Scalfari chiama a raccolta per sostenere la propria idea di modernità si è fatto sempre più vasto e comprensivo: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoij, da Rilke a Kafka a Proust, da Freud a Nietzsche, le varie "cime" (raramente tranquille, più spesso tempestose) della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa (che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice). Però, al tempo stesso, si è fatta sempre più vasta e comprensiva la problematica dell'"io" che filtra, deposita, organizza, dà "senso" (espressione scalfariana), sistematizza i materiali che mette (o rimette) a disposizione del lettore. Al centro del libro, dunque, non sta, puramente o semplicemente, la cultura della modernità, come Scalfari la intende. Ma c'è Scalfari come sperimenta, vive, modifica, vivendola, la cultura della modernità nell'atto d'intenderla. Se si perde di vista questo doppio passaggio, c'è il rischio di perdere di vista il senso assai complesso dell'intero libro.

Poiché non posso parlare di tutto, dirò solo di due cose, che però a me sembrano essenziali (con un corollario finale). La prima riguarda la "forma del libro" (che per me è essenziale per capire "cos'è il libro"). Dicevo all'inizio: "percorso". Sarebbe più esatto dire: "viaggio". Scrive Scalfari: "Il viaggio è la nostra dimensione naturale, posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio". Ma: "Quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi sono ancora più sconvolgenti perché è la nostra storia che andiamo ricostruendo...". Il fatto che si tratti in ambedue i casi di citazioni da Incontro con io ribadisce la linea di continuità di cui parlavamo in partenza. Infatti, in Per l'alto mare aperto: "L'Intelligenza che viaggia nel mondo sempre in lotta con la stupidità. Un viaggio difficile, contrastato, un viaggio per spiriti liberi...". Più esplicitamente ancora: "Continuando questo mio viaggio...".

La forma del viaggio comporta in Scalfari un recupero dantesco (Diderot = Virgilio) e uno omerico-dantesco: Ulisse, inteso come "mito" primigenio cui ancorare solidamente la modernità. Comporta una ricostruzione del tessuto culturale, ideale, filosofico, letterario della modernità, con le sue tappe, i suoi crocicchi, i suoi incontri e scontri, ma anche, come ogni viaggio che si rispetti, i suoi ritorni all'indietro, quando risulta necessario. Ma comporta anche, - e su questo aspetto io vorrei attirare di più l'attenzione, forse perché meno visibile, - un'esplorazione a' rebours del proprio passato da parte dell'Autore, fino alle insondabili profondità infantili, in cui un certo interesse, una certa pulsione sono germinati, per fondersi più avanti con le letture dell'adolescenza, della giovinezza, della maturità e... della vecchiaia. È la forma del viaggio, sostengo, che dà a questo libro, pur denso nei suoi contenuti, la sua piacevolezza, il suo fascino discorsivo, la sua capacità di comunicazione con il lettore, che ne segue, persino divertito, lo scorrevole andamento.

La seconda osservazione riguarda il catalogo. Chiunque si sia azzardato a proporre un "canone" (nessuno meglio di me può saperlo), si espone al rischio del famoso (e del tutto ozioso) gioco delle "sottrazioni" e delle "aggiunte". Non di questo intendo parlare. Vorrei invece dire la mia, troppo brevemente, me ne rendo conto, sull'idea di modernità che quel canone esprime. Io la riassumerei in questo modo: la modernità è un pensiero forte, che, a partire da una fiducia illimitata nella Ragione, man mano che si misura rigorosamente (e in mille straordinari modi) con il filtro dell'"io", del soggetto dichiarato e risolutamente monocentrato, perde i suoi fondamenti iniziali, si sfalda, trova nuove forme e, nelle nuove forme, dissolve ogni contatto persino con un residuo di Assoluto. Per questo il canone, pur rimanendo ancorato all'Illuminismo-Diderot, comincia di fatto con Montaigne e finisce con Nietzsche. Il relativismo, s'intende, ne rappresenta l'approdo finale. Ma - se non è un gioco di parole - un relativismo che resta anch'esso solidamente razionale e non perde mai i suoi rapporti con l'umano. E cioè un relativismo che non disintegra né immiserisce i valori, ma, - spero che neanche questo sia un gioco di parole, - li relativizza, riconoscendone intelligentemente la presenza e l'opportunità (ma anche i limiti) all'interno dell'agire storico-umano.

Questo modo di procedere, - che è al tempo stesso contemplativo e lucidamente razionale, introspettivo e storico-critico - produce una vera e propria mappatura del pensiero moderno, che andrebbe esaminata punto per punto, nei suoi accostamenti, non sempre scontati, e nelle singole figure che li compongono e rappresentano.

Confesso che uno dei capitoli che mi ha colpito di più, per comprensibili motivi personali, è quello dedicato a Karl Marx. Si chiede Scalfari in esordio, e lo chiede ai suoi lettori (riprendendo fra l'altro un topos sul quale noi ci siamo già soffermati): "Sapevamo, non è vero? Che in questo nostro viaggio uno degli incontri più significativi sarebbe stato questo [con Marx]". Be', io non lo sapevo: non nel senso che io non sia incline ad attribuire a Marx il ruolo nel percorso storico della modernità che Scalfari gli attribuisce: ma nel senso che non avrei pensato che Scalfari, intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica, fosse disposto a farlo, - e in questa misura. Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l'individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà. Se mai, un lettore incontentabile potrebbe osservare che fra i testi fondativi dell'imperitura modernità marxiana, accanto al Capitale, si potrebbero annoverare, e persino con qualche motivazione in più, gli Scritti filosofici giovanili e i Grundrisse: ma il baricentro del ragionamento non cambierebbe certo granché.

Come tutto questo poi si ricolleghi più in generale all'esperienza pubblica e alla figura politico-intellettuale di Eugenio Scalfari (un altro tratto del viaggio da tener presente), un lettore normale non dovrebbe far fatica a capirlo.

Il corollario è che, secondo Scalfari, la modernità è cominciata, c'è stata ma è anche finita. Intorno a noi i nostri contemporanei sono i nostri posteri e i nostri posteri sono i nuovi barbari. È un pensiero con cui mi sono anch'io recentemente confrontato, ed è - io credo - il pensiero di una generazione e di una storia. Fin dove arrivano questa generazione (forse una multi-generazione) e questa storia (forse più storie, molte storie diverse)? La cultura della modernità dovrebbe fare un ultimo sforzo: capire più esattamente dove la frattura si è verificata e perché, dove le generazioni e le storie più esattamente sono rientrate nella barbarie. La modernità ha un debito aperto con la contemporaneità: bisognerebbe pensarci molto seriamente. Intanto Scalfari ha fatto molto più che la sua parte. Mi è accaduto molto recentemente di sentirlo parlare ad un folto pubblico di giovani e di rimanere stupito, da vecchio docente, della corrente di comprensione, di simpatia, anzi di vera e propria complicità che correva fra loro al di sopra di un abisso di quasi settant'anni e di centinaia di migliaia di esperienze diverse: segno, penso, che i fili non sono del tutto spezzati e forse si possono ancora riallacciare. 
(07 maggio 2010) 

Intervista sulla modernità: parla Eugenio Scalfari




Fonte: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/05/07/news/analisi_incontro-3876733/

terça-feira, 4 de maio de 2010

A viagem


Chegou atrasada à estação e dirigiu-se ao guichê nº 3. Deu a senha: Hâdi. O atendente, um homem magro e alto, olhou-a fixamente, através das lentes grossas, e pediu que aguardasse um pouco. Voltou com um livro na mão e perguntou-lhe se estava preparada para a viagem. Só depois da resposta afirmativa, entregou-lhe o tíquete e o volume encadernado.

Tinha poucos minutos para chegar à plataforma 7 e pegar o trem.. Entrou no vagão e procurou o seu assento. A excitação a dominava. Sentou-se, tentando manter a calma. Antes de abrir o livro, observou cuidadosamente as poucas pessoas ao redor. Na sua fileira, estava um homem de paletó, lendo uma revista. Ao se sentir examinado, ele levantou a vista e fixou-a com olhos azuis profundos. Uma fila à frente, sentava-se uma senhora de meia idade, vestida com correção. Nas primeiras poltronas, dois velhinhos conversavam animadamente. Uma jovem, que vestia um terno cinza e segurava uma pasta de couro, escolhera um lugar próximo à janela. O que essas pessoas teriam em comum com seu namorado?

A capa do livro não trazia qualquer inscrição. Na primeira página, havia uma palavra, que devia ser o título, numa língua desconhecida, e nada mais, sequer o nome do autor. Passou as páginas e viu que seria inútil tentar entender algo. Além do texto, havia inúmeros desenhos, alguns bem estranhos: uma figura dividida ao meio, uma metade macho e outra fêmea, dentro de um ovo, que se equilibrava sobre um dragão alado; um pássaro de asas abertas, cuja sombra era uma figura humana; uma cruz, cujos braços terminavam em triângulos e, embaixo de cada braço, um círculo com um quadrado dentro. Em uma das páginas, alguém havia rabiscado uma seta, que apontava para um círculo sextavado, com vários círculos concêntricos, interrompidos em determinados pontos. Concentrou sua atenção nesse símbolo, procurando decifrá-lo.
O trem ganhou velocidade e foi engolido pela escuridão. Não passavam por nenhuma vila ou cidade. A ansiedade impedia seu raciocínio. Será que os outros passageiros também viajavam para o desconhecido? Ela estava ali por acaso. Ou não?

Tinha encontrado o misterioso bilhete, com a hora da viagem, o número do guichê e o código, sobre a mesinha de cabeceira do namorado e resolvera pegar o trem no lugar dele para descobrir aonde ele ia e com quem. Isso só podia ser coisa de mulher. Sorrateiramente, apossou-se do bilhete e decidiu descobrir por si mesma. Agora, varava a noite, sem conhecer o destino ou o motivo da viagem.

Sentiu sede e dirigiu-se ao restaurante, mas lá não havia viva alma. Continuou atravessando os vagões até o último: todos vazios. Voltou assustada. Seus companheiros de viagem continuavam tranqüilamente em seus lugares. Nervosa, disse, em voz alta, que o único vagão ocupado era aquele em que estavam. Todos se entreolharam perplexos. Os dois velhinhos falaram entre si, como se não tivessem entendido. A senhora de meia idade procurou acalmá-la:
— Nesta hora, os passageiros são raros.
— E o restaurante, por que não está funcionando?
— Talvez por causa do horário e do percurso, que é curto.
Contemporizou o homem de olhos azuis.
— Tão curto, que nos deixam sem água?
— Podemos pedir ao camareiro.
— O senhor viu algum camareiro ou outro funcionário qualquer desde que saímos?
Depois da saída, nenhum empregado entrou neste vagão.
De repente, a velocidade diminuiu e um forte clarão surgiu à frente. Lentamente se aproximaram de uma estação tão iluminada, que ela pensou que o dia estivesse nascendo. Quando o trem parou de vez, ela desceu e a jovem de cinza a acompanhou. Procuraram uma indicação que lhes informasse onde estavam, mas não havia qualquer letreiro. O prédio estava deserto e as paredes completamente brancas e nuas. Sentiu um calafrio, segurou o braço da companheira e voltaram correndo a seus lugares. O homem de paletó marinho afirmou que não havia motivo para agitação.
— Pode ser que a estação ainda não tenha sido inaugurada.
Justificou.
— E qual o motivo de tanta iluminação?
— Devem ter esquecido de apagar as luzes.

Bobagem! Insatisfeita, ela lembrou-se do livro. Não o encontrando sobre a cadeira onde o havia deixado, abaixou-se para ver se tinha caído. Estremeceu, ao ouvir a voz da senhora de meia-idade:
— Está procurando isto? Não resisto à curiosidade quando vejo um livro. Que língua é esta? Conheço muitas, mas nunca vi nada semelhante.
— É uma língua indígena.

Desconversou e tomou o volume das mãos da mulher. Nisto, notou que os velhinhos não estavam no vagão. Correu até à janela e respirou aliviada, ao ver que o casal caminhava de volta, apoiando-se um no outro.

Examinou mais uma vez a figura do círculo sextavado: os círculos se embaralhavam e confundiam. Lembrou-se de que, quando criança, seu pai costumava comprar uma revista, que trazia palavras cruzadas, advinhas, jogos e um deles era semelhante ao desenho, só que, no centro, havia sempre um animalzinho perdido. Sua tarefa era ajudá-lo a encontrar a saída. O que isso tinha a ver com a viagem? Essas pessoas estariam em perigo?

Cochilou um pouco e acordou meio confusa. Percebeu que o trem se arrastava lentamente. Olhou para fora e nada viu. Os passageiros arrumavam seus pertences como se, ali, fosse o fim da linha. Ao longe surgiu o prédio de uma estação e, pouco a pouco, pôde divisar uma figura feminina, sozinha de pé na plataforma. A máquina estacionou e a moça, lentamente, virou o rosto para ela. Ficou paralisada pelo pavor: a mulher que da plataforma a fitava era ela mesma.



Lourdinha Leite Barbosa 


Fonte: http://lourdinhalb.blogspot.com/

Uma viagem fantástica



Texto analisado por Aíla Sampaio do conto “A viagem” que está presente no livro " A arte de engolir palavras", de Lourdinha Leite Barbosa,  que vai de encontro com  o mistério em que a narrativa apresenta , em que vai de encontro com o fantástico. 

Escrever é uma arte e, como toda arte, requer perícia. No caso da literatura, pode-se dizer que o texto é ‘tecido’ pela arte de engolir e ‘desengolir’ palavras, numa atitude consciente da criação. Lourdinha Leite Barbosa, em seu livro de contos “A arte de engolir palavras” já anuncia esse processo a partir do título da obra, que Vicência Jaguaribe bem marcou como uma reflexão metalingüística. O conto homônimo é uma metáfora desse exercício, sem dúvida.

Embora se saiba que a inventividade não decorra de técnicas, mas do poder de captar, da imaginação, da observação ou da memória, a matéria sensível que dá ‘vida’ aos enredos, percebe-se, nos contos de Lourdinha, o apuro formal de quem bem domina a técnica do conto. Sua frase enxuta e seus enredos concisos mostram um trabalho de linguagem cuidadoso, elaborado com precisão e consciência. A teoria literária, como as tantas teorias do texto, se diluem no uso de recursos como a intertextualidade, o efeito fantástico e a ambigüidade. Seus textos não subestimam o leitor, ao contrário, convidam-no ao mergulho, à prospecção, à construção da lógica (ou da subversão dela) que subjaz nas entrelinhas.

O Fantástico, gênero que se estabelece a partir de um acontecimento não explicável pelas leis da razão, está presente em pelo menos seis das narrativas do livro. Destaca-se a sutileza com que a autora consegue construir o clima extranatural, de forma tão harmoniosa, ao trabalhar um tema tradicional como ‘o duplo’, no conto “A viagem” (p.32).

É este um dos mais antigos temas explorados pela literatura, tendo aparecido mais notoriamente no século XIX, quando vieram a lume as produções de E. T. A. Hoffmann, Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant e Dostoievski. A sua origem, no entanto, remonta à Antigüidade Clássica, pois, como afirma Clément Rosset (1976:61), “os personagens de Sósia ou de irmão-gêmeo ocupam um lugar no teatro antigo, como no Anfitrião ou em Os Menecmas de Plauto”. O tema ultrapassa a expressão literária, estendendo-se, ainda, à pintura e à música.

O desdobramento do eu que, na realidade, vem possibilitar o encontro desse eu consigo mesmo, resulta, geralmente, de um conflito existencial que leva o sujeito a buscar a sua verdadeira essência. Clément Rosset (1976) afirma que a restituição desse eu, ou seja, essa “reconciliação de si consigo mesmo” (p. 77), ansiada pelo indivíduo em conflito, só é possível através da aniquilação do duplo. Já na literatura romântica, conforme assinala o filósofo, ocorre o contrário, pois “a perda do duplo, do reflexo, da sombra não é [...] libertação, mas efeito maléfico” (p. 78). A destruição do duplo implica a destruição do eu. No seu ponto de vista, inclusive, o duplo não passa de uma ilusão: “Quem repete não diz nada, quer dizer, não é nem capaz de repetir-se. O original deve dispensar qualquer imagem: se não me encontro em mim mesmo, reencontrar-me-ei ainda bem menos no meu eco. É preciso então que eu seja suficiente, por menor que seja ou pareça na realidade: porque a escolha se limita ao único, que é muito pouco, e ao seu duplo que não é nada (ROSSET, 1976: 83-4).

A narrativa do conto “A viagem”, de Lourdinha, não dá nenhuma pista sobre a moça, que não tem nome nem idade ou qualquer característica que faça o leitor criar uma imagem. Sua aparição dá-se já quase como um ser etéreo, que vai ao encontro do seu destino. Seu? “Tinha encontrado o misterioso bilhete, com a hora da viagem, o número do guichê e o código, sobre a mesinha de cabeceira do namorado e resolvera descobrir aonde ele ia e com quem”. Logo ela se apercebe que “varou a noite sem saber o motivo e o destino da viagem” e questiona se realmente estaria ali por acaso.

Sem entender , após dar a senha ao ‘homem alto e magro’ do guichê, recebe o tíquete e um livro de capa azul sem qualquer inscrição. Também sem autor e com um título em língua desconhecida, o livro traz textos em língua inteligível e desenhos estranhos: “um ovo, contendo uma figura metade macho, metade fêmea, sobre um dragão alado; um pássaro de asas abertas, cuja sombra era uma figura humana; uma cruz, cujos braços terminavam em triângulos, e embaixo de cada braço, um círculo com um quadrado dentro. Uma seta feita à mão, apontava para um deles: um círculo sextavado, com vários círculos concêntricos, interrompidos em certos pontos”. O mistério se ‘concretiza’ e o significado da senha – Hâdi – bem como do símbolo indicado pela seta, causam certa inquietação no leitor. A personagem, entretanto, limita-se a tentar decifrar o símbolo e a incomodar-se com o vazio na estação, no restaurante e no próprio trem. Só no vagão indicado no tíquete há pessoas.

Assustada com a ausência de estrutura para a viagem – não há sequer camareiro ou funcionário no trem- ela, após percorrer todos os vagões e perceber que não há ninguém, retorna ao seu e se dirige às pessoas, demonstrando seu nervosismo na tentativa de compreender a situação. Os passageiros, na tranquilidade dos que já tudo entenderam, respondem-na com certo desvelo, como a se darem conta de que ela precisa se acalmar: “Os dois velhinhos pareciam não ter entendido. A senhora de meia-idade procurou acalmá-la”; “contemporizou o homem de olhos azuis”; “Todos se entreolharam”; “A jovem de cinza acompanhou-a”. Solenes como os mortos, os passageiros do trem deslizam sobre os trilhos, em velocidade lenta e, sem saberem aonde ou a que vão, chegam a uma estação iluminada, sem indicações; ‘um prédio deserto de paredes completamente brancas e nuas’. A reação da moça, a única a, aparentemente, não saber o que se passa, é de ‘calafrio’, solidão, medo.

O Fantástico vai-se construindo no insólito dos acontecimentos, na ausência de explicações para a situação incomum, na inquietude do comportamento da personagem – assustada, nervosa -, no espaço sem identificação, híbrido como a morada dos mortos... A senha ‘Hâdi’ indicaria uma passagem para a morada de Hades? Perdida no labirinto da passagem entre a vida e a morte, ela decifrou o símbolo e lembrou dos jogos da palavra cruzada, de desenho idêntico... mas sua saída foi o sono, o entorpecimento da consciência até a chegada ao ‘fim da linha’. Não se sabe se esse sono se dá antes ou após a descida na estação iluminada. Não há notações temporais contínuas.

O leitor atento não hesita, sabe que o percurso no trem foi a preparação para a irrupção do insólito; de dentro do trem, ela enxerga seu próprio vulto a esperá-la na estação: “Aos poucos, foi divisando o prédio da estação e um vulto solitário de pé na plataforma. Ao acercar-se, faltou-lhe o ar e todo o seu corpo ficou paralisado pelo pavor: a mulher que da plataforma a fitava era ela mesma”. Embora a personagem esboce reação ante o sobrenatural, o Fantástico se estabelece de forma bastante sutil – moderna, pode-se dizer -, pois a morte não é tratada de forma maléfica, tampouco o vulto que aparece traz contornos de um fantasma; não na acepção do reaparecimento de uma alma penada, que volta à vida para causar assombro, mas da aparição de uma mulher que não sabe sua condição e mantém o seu antigo aspecto, longe das formas indefinidas e evanescentes (HOLANDA, 1986: 757), próprias do fantasma tradicional.

Como já se falou, procurando concretizar essa ilusão __ o duplo __, a literatura fantástica explora tanto a restituição quanto à aniquilação do eu. A linha mais tradicional segue a trilha da literatura romântica que, como citou Rosset, percebe na destruição do duplo a aniquilação do próprio eu. Já a moderna, concebe esse encontro como a restituição desse eu, ou seja, essa “reconciliação de si consigo mesmo”. Qual seria o caso do conto “A viagem? Ora, é exatamente a ambigüidade o princípio constitutivo do Fantástico nesse conto: estaria a personagem apenas sonhando e acordara? O conto, possivelmente carregado da preocupação existencial da autora, teria colocado na moça as inquietações humanas dos que se encontram pedidos de si e buscam reencontrar-se? Ou estaria ela mesmo morta, fazendo a viagem simbólica à ‘morada dos mortos’? O discurso não permite respostas e é, certamente, nessa incerteza que o Fantástico se consolida.

BIBLIOGRAFIA:
FERREIRA, Aurélio B. de H. Novo dicionário da língua portuguesa. 2ª ed. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1986.
FURTADO, Filipe, A construção do fantástico na narrativa. Lisboa: Livros Horizonte, 1980
JAGUARIBE, Vicência Mª Freitas. Sobre a arte de engolir palavras e suas outras artes. In: LEITE BARBOSA, Lourdinha. A arte de engolir palavras. Bagaço, Fortaleza, 2002 pp.77-95
LEITE BARBOSA, Lourdinha. A arte de engolir palavras. Bagaço, Fortaleza, 2002
ROSSET, Clément. O real e seu duplo., 1976TODOROV, Tzvetan . Introdução à literatura fantástica. São Paulo: Perspectiva, 1975.

Aíla Sampaio



Fonte: http://lourdinhalb.blogspot.com/