Seguidores

segunda-feira, 10 de maio de 2010

Eugenio Scalfari viaggio nella modernità Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, " Per l'alto mare aperto" fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia -


Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, il fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia  

di ALBERTO ASOR ROSA
L'antecedente immediato di quest'ultimo libro di Eugenio Scalfari, Per l'alto mare aperto (Einaudi, pagg. 281, euro 19,50), è Incontro con io (Rizzoli, 1994). Immediato? Sono passati sedici anni, come si vede, fra l'uno e l'altro, e nel frattempo Scalfari ha pubblicato quello che definirei un romanzo allegorico, La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001) e quella che definirei un'autobiografia filosofica, L'uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), oltre, s'intende, vari altri testi di carattere più decisamente politico- economico ed impegnato. Immediato in che senso, allora? Nel senso che Incontro con io segna il punto di partenza di un lungo percorso (tornerò su questo termine) che l'Autore ha deciso non da ora di compiere attraverso la cultura della modernità, passando però, e via via sempre più instancabilmente, attraverso se stesso, attraverso "io".

Questo percorso raggiunge il suo culmine (per ora) in Per l'alto mare aperto. Il catalogo degli autori che Scalfari chiama a raccolta per sostenere la propria idea di modernità si è fatto sempre più vasto e comprensivo: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoij, da Rilke a Kafka a Proust, da Freud a Nietzsche, le varie "cime" (raramente tranquille, più spesso tempestose) della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa (che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice). Però, al tempo stesso, si è fatta sempre più vasta e comprensiva la problematica dell'"io" che filtra, deposita, organizza, dà "senso" (espressione scalfariana), sistematizza i materiali che mette (o rimette) a disposizione del lettore. Al centro del libro, dunque, non sta, puramente o semplicemente, la cultura della modernità, come Scalfari la intende. Ma c'è Scalfari come sperimenta, vive, modifica, vivendola, la cultura della modernità nell'atto d'intenderla. Se si perde di vista questo doppio passaggio, c'è il rischio di perdere di vista il senso assai complesso dell'intero libro.

Poiché non posso parlare di tutto, dirò solo di due cose, che però a me sembrano essenziali (con un corollario finale). La prima riguarda la "forma del libro" (che per me è essenziale per capire "cos'è il libro"). Dicevo all'inizio: "percorso". Sarebbe più esatto dire: "viaggio". Scrive Scalfari: "Il viaggio è la nostra dimensione naturale, posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio". Ma: "Quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi sono ancora più sconvolgenti perché è la nostra storia che andiamo ricostruendo...". Il fatto che si tratti in ambedue i casi di citazioni da Incontro con io ribadisce la linea di continuità di cui parlavamo in partenza. Infatti, in Per l'alto mare aperto: "L'Intelligenza che viaggia nel mondo sempre in lotta con la stupidità. Un viaggio difficile, contrastato, un viaggio per spiriti liberi...". Più esplicitamente ancora: "Continuando questo mio viaggio...".

La forma del viaggio comporta in Scalfari un recupero dantesco (Diderot = Virgilio) e uno omerico-dantesco: Ulisse, inteso come "mito" primigenio cui ancorare solidamente la modernità. Comporta una ricostruzione del tessuto culturale, ideale, filosofico, letterario della modernità, con le sue tappe, i suoi crocicchi, i suoi incontri e scontri, ma anche, come ogni viaggio che si rispetti, i suoi ritorni all'indietro, quando risulta necessario. Ma comporta anche, - e su questo aspetto io vorrei attirare di più l'attenzione, forse perché meno visibile, - un'esplorazione a' rebours del proprio passato da parte dell'Autore, fino alle insondabili profondità infantili, in cui un certo interesse, una certa pulsione sono germinati, per fondersi più avanti con le letture dell'adolescenza, della giovinezza, della maturità e... della vecchiaia. È la forma del viaggio, sostengo, che dà a questo libro, pur denso nei suoi contenuti, la sua piacevolezza, il suo fascino discorsivo, la sua capacità di comunicazione con il lettore, che ne segue, persino divertito, lo scorrevole andamento.

La seconda osservazione riguarda il catalogo. Chiunque si sia azzardato a proporre un "canone" (nessuno meglio di me può saperlo), si espone al rischio del famoso (e del tutto ozioso) gioco delle "sottrazioni" e delle "aggiunte". Non di questo intendo parlare. Vorrei invece dire la mia, troppo brevemente, me ne rendo conto, sull'idea di modernità che quel canone esprime. Io la riassumerei in questo modo: la modernità è un pensiero forte, che, a partire da una fiducia illimitata nella Ragione, man mano che si misura rigorosamente (e in mille straordinari modi) con il filtro dell'"io", del soggetto dichiarato e risolutamente monocentrato, perde i suoi fondamenti iniziali, si sfalda, trova nuove forme e, nelle nuove forme, dissolve ogni contatto persino con un residuo di Assoluto. Per questo il canone, pur rimanendo ancorato all'Illuminismo-Diderot, comincia di fatto con Montaigne e finisce con Nietzsche. Il relativismo, s'intende, ne rappresenta l'approdo finale. Ma - se non è un gioco di parole - un relativismo che resta anch'esso solidamente razionale e non perde mai i suoi rapporti con l'umano. E cioè un relativismo che non disintegra né immiserisce i valori, ma, - spero che neanche questo sia un gioco di parole, - li relativizza, riconoscendone intelligentemente la presenza e l'opportunità (ma anche i limiti) all'interno dell'agire storico-umano.

Questo modo di procedere, - che è al tempo stesso contemplativo e lucidamente razionale, introspettivo e storico-critico - produce una vera e propria mappatura del pensiero moderno, che andrebbe esaminata punto per punto, nei suoi accostamenti, non sempre scontati, e nelle singole figure che li compongono e rappresentano.

Confesso che uno dei capitoli che mi ha colpito di più, per comprensibili motivi personali, è quello dedicato a Karl Marx. Si chiede Scalfari in esordio, e lo chiede ai suoi lettori (riprendendo fra l'altro un topos sul quale noi ci siamo già soffermati): "Sapevamo, non è vero? Che in questo nostro viaggio uno degli incontri più significativi sarebbe stato questo [con Marx]". Be', io non lo sapevo: non nel senso che io non sia incline ad attribuire a Marx il ruolo nel percorso storico della modernità che Scalfari gli attribuisce: ma nel senso che non avrei pensato che Scalfari, intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica, fosse disposto a farlo, - e in questa misura. Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l'individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà. Se mai, un lettore incontentabile potrebbe osservare che fra i testi fondativi dell'imperitura modernità marxiana, accanto al Capitale, si potrebbero annoverare, e persino con qualche motivazione in più, gli Scritti filosofici giovanili e i Grundrisse: ma il baricentro del ragionamento non cambierebbe certo granché.

Come tutto questo poi si ricolleghi più in generale all'esperienza pubblica e alla figura politico-intellettuale di Eugenio Scalfari (un altro tratto del viaggio da tener presente), un lettore normale non dovrebbe far fatica a capirlo.

Il corollario è che, secondo Scalfari, la modernità è cominciata, c'è stata ma è anche finita. Intorno a noi i nostri contemporanei sono i nostri posteri e i nostri posteri sono i nuovi barbari. È un pensiero con cui mi sono anch'io recentemente confrontato, ed è - io credo - il pensiero di una generazione e di una storia. Fin dove arrivano questa generazione (forse una multi-generazione) e questa storia (forse più storie, molte storie diverse)? La cultura della modernità dovrebbe fare un ultimo sforzo: capire più esattamente dove la frattura si è verificata e perché, dove le generazioni e le storie più esattamente sono rientrate nella barbarie. La modernità ha un debito aperto con la contemporaneità: bisognerebbe pensarci molto seriamente. Intanto Scalfari ha fatto molto più che la sua parte. Mi è accaduto molto recentemente di sentirlo parlare ad un folto pubblico di giovani e di rimanere stupito, da vecchio docente, della corrente di comprensione, di simpatia, anzi di vera e propria complicità che correva fra loro al di sopra di un abisso di quasi settant'anni e di centinaia di migliaia di esperienze diverse: segno, penso, che i fili non sono del tutto spezzati e forse si possono ancora riallacciare. 
(07 maggio 2010) 

Nenhum comentário: