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segunda-feira, 10 de maio de 2010

ANALISI - Quel mondo perduto tra Nietzsche e Proust


Ad essere indicato come terminale di una svolta nel modo di trattare le grandi questioni filosofiche è il pensatore tedesco

di ANTONIO GNOLI

L'intreccio tra modernità e filosofia è una delle componenti su cui più forte è stata la riflessione negli ultimi anni. Figure come Habermas e Blumenberg hanno costruito una linea di difesa del moderno contro gli attacchi provenienti da quegli autori, in particolare Lyotard, Derrida, Baudrillard, che ne avevano con ragioni diverse, decretato la fine. Una lunga battaglia si è svolta tra chi nel moderno ha colto i motivi ancora validi di un pensiero in grado di confermare quanto da Descartes in poi la ragione umana aveva, pur tra incertezze e dubbi, costruito nei più diversi campi: dalle scienze alla società, dall'arte alla politica, dalla religione alla vita. E coloro che, avendone colto l'esaurirsi della spinta propulsiva, ne hanno denunciato il carattere autoritario e violento. È su questo sfondo conflittuale che ho letto il nuovo libro di Scalfari, la cui forza risiede nel volersi ritagliare una posizione terza che è tanto più interessante in quanto tiene conto di entrambe le sensibilità.

La modernità, avverte Scalfari, dura grosso modo quattrocento anni. In questo arco di tempo cambia il nostro rapporto con la scienza, la politica, l'economia, l'arte, la religione. È un'epoca densa di rivolgimenti nella quale declina la metafisica. Non è di questo che la filosofia si è occupata fino a quel momento? E che cosa, da questo punto in poi, ci riserverà? Tra i filosofi, che meglio hanno segnato il mondo moderno, Scalfari ne individua quattro: Descartes, Spinoza, Kant e Hegel. Non furono meno moderni, ci avverte l'autore, Hobbes, Leibniz e Hume. Ma in quelli che ha eletto a rappresentanti della modernità, ne coglie la grandiosità del disegno, la forza persuasiva del sistema, la problematicizzazione della trascendenza e dunque il diverso posto che assegnano a Dio.

Sono pagine di grande chiarezza che Scalfari dedica a questa sorta di rivoluzione filosofica che ha alle spalle un padre tanto autorevole quanto appartato: Michel de Montaigne. È lui la vera icona della modernità che, nel chiuso del suo castello, descrive negli Essais un mondo completamente nuovo: mosso, mutevole, apprezzabile e molto più grande di quanto non immagini la vecchia metafisica. Sarà quella visione relativa delle cose, osserva Scalfari, a incantare prima Diderot e poi lo stesso Goethe. Nei confronti dell'artefice dell'Encyclopedie Scalfari prova una vera attrazione. Diderot è il più inquieto tra gli illuministi. Ama le donne di spirito, combatte il potere dall'interno del potere, realizza straordinarie imprese editoriali, scrive romanzi che tutta l'Europa leggerà, si professa ateo coerente e spregiudicato. Cosa c'è, dunque, di più moderno di una tale sensibilità duttile, provocatoria, capace di mettere alla prova la ragione e dare un senso all'azione? Quella modernità che ebbe inizio con Montaigne, si conclude con Nietzsche: "L'ultimo gioco intellettuale, l'ultima playstation è Nietzsche", scrive con un'immagine efficace Scalfari.

Se la modernità ci ha insegnato a viaggiare e a relativizzare il conosciuto, se ha messo in discussione, senza tuttavia cancellarlo, il rapporto con Dio, se ha rivisto la relazione tra politica e morale, se ha assegnato all'economia un ruolo che prima non aveva e alla ragione umana un posto di tutto rispetto, se ha alimentato il dubbio e la tolleranza, se ha sottoposto la verità al controllo sperimentale, se ha dato forza al presente e al futuro, allora in che senso Nietzsche metterebbe fine a tutto questo?

Già col precedente libro Scalfari insisteva sul ruolo che l'autore dello Zarathustra aveva svolto nell'ambito della modernità. Ma si ha l'impressione che il nuovo lavoro indichi una svolta nel modo di pensare le grandi questioni filosofiche di cui Nietzsche è il terminale. "Nel mio libro L'uomo che non credeva in Dio", scrive Scalfari, "ho parlato a lungo di Nietzsche e ho creduto di capire che il suo pensiero si rifaceva al "tutto scorre nulla permane" eracliteo... Ma poi tornando a riflettere su quelle pagine, mi è sembrato che il "tutto scorre" non sia il solo principio al quale si ispira la concezione filosofica di Nietzsche. Il suo pensiero è molto più complesso e il divenire per lui rappresenta la modalità dell'essere". Con questa nuova consapevolezza si aprono questioni non marginali. La prima delle quali ci pare riconducibile a una sorta di paradossale accostamento tra Nietzsche e Montaigne. E se dunque uno, capovolgendo il sistema dei valori, chiude la modernità, l'altro - con il suo relativismo - la condanna fin dall'inizio.

C'è una seconda questione che richiama sia il rapporto di Nietzsche con la metafisica, sia il modo in cui Heidegger interpreta questa relazione. Scalfari gli dedica alcune pagine. E se capisco bene lo svolgersi del ragionamento scalfariano, Heidegger restituisce un'interpretazione "malandrina" di Nietzsche, perché occulta la soggettività del proprio sguardo. In altre parole il limite di Heidegger risiederebbe nel fatto di non dichiarare che la sua interpretazione di Nietzsche non è l'unica. Peccando così di una slealtà interpretativa tanto più grave, osserva Scalfari, in quanto "l'intera ermeneutica nicciana si basa su questo delicato rapporto tra la soggettività dell'interprete e l'oggettività della cosa interpretata". Ma è proprio questa l'accusa che Heidegger muove a tutta la tradizione della metafisica occidentale (compreso Nietzsche che fallisce nel suo tentativo di uscirne): aver posto soggetto e oggetto (diciamolo un po' alla buona) uno di fronte all'altro. Dell'autore di Essere e Tempo si possono dire molte cose, ma non che egli abbia voluto restaurare una qualche forma di metafisica.

Il libro di Scalfari si avvale di una sensibilità che lo spinge a indagare i vari livelli in cui la modernità si è resa manifesta: da quello filosofico, come si è visto, a quello letterario. Sul quale ancora una volta mostra le sue preferenze: Proust e Rilke, su tutti gli altri. È un altro modo per discendere le scale del moderno e vedere cosa si nasconde ancora nelle sue cantine. Verrebbe a questo punto voglia di chiedere: se il moderno è finito, da quale luogo noi continueremo a pensare e a parlare? Scalfari è consapevole che qualcosa di fondamentale si è rotto e, a quanto pare, non più rimediabile. Egli fiuta l'aria del nuovo che ancora non c'è, ma che irresistibile giungerà. È il destino delle epoche di aprirsi e chiudersi. Noi, moderni viviamo il paradosso, sembra dirci Scalfari, di essere dentro e fuori da quel mondo. È il nostro lungo declino, in attesa che i nuovi barbari vengano legittimati.

(07 maggio 2010)



Eugenio Scalfari viaggio nella modernità Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, " Per l'alto mare aperto" fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia -


Da Montaigne a Diderot, da Tolstoj a Freud. Nel suo nuovo libro, il fondatore di "Repubblica" traccia un intenerario fra letteratura e filosofia  

di ALBERTO ASOR ROSA
L'antecedente immediato di quest'ultimo libro di Eugenio Scalfari, Per l'alto mare aperto (Einaudi, pagg. 281, euro 19,50), è Incontro con io (Rizzoli, 1994). Immediato? Sono passati sedici anni, come si vede, fra l'uno e l'altro, e nel frattempo Scalfari ha pubblicato quello che definirei un romanzo allegorico, La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001) e quella che definirei un'autobiografia filosofica, L'uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), oltre, s'intende, vari altri testi di carattere più decisamente politico- economico ed impegnato. Immediato in che senso, allora? Nel senso che Incontro con io segna il punto di partenza di un lungo percorso (tornerò su questo termine) che l'Autore ha deciso non da ora di compiere attraverso la cultura della modernità, passando però, e via via sempre più instancabilmente, attraverso se stesso, attraverso "io".

Questo percorso raggiunge il suo culmine (per ora) in Per l'alto mare aperto. Il catalogo degli autori che Scalfari chiama a raccolta per sostenere la propria idea di modernità si è fatto sempre più vasto e comprensivo: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoij, da Rilke a Kafka a Proust, da Freud a Nietzsche, le varie "cime" (raramente tranquille, più spesso tempestose) della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa (che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice). Però, al tempo stesso, si è fatta sempre più vasta e comprensiva la problematica dell'"io" che filtra, deposita, organizza, dà "senso" (espressione scalfariana), sistematizza i materiali che mette (o rimette) a disposizione del lettore. Al centro del libro, dunque, non sta, puramente o semplicemente, la cultura della modernità, come Scalfari la intende. Ma c'è Scalfari come sperimenta, vive, modifica, vivendola, la cultura della modernità nell'atto d'intenderla. Se si perde di vista questo doppio passaggio, c'è il rischio di perdere di vista il senso assai complesso dell'intero libro.

Poiché non posso parlare di tutto, dirò solo di due cose, che però a me sembrano essenziali (con un corollario finale). La prima riguarda la "forma del libro" (che per me è essenziale per capire "cos'è il libro"). Dicevo all'inizio: "percorso". Sarebbe più esatto dire: "viaggio". Scrive Scalfari: "Il viaggio è la nostra dimensione naturale, posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio". Ma: "Quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi sono ancora più sconvolgenti perché è la nostra storia che andiamo ricostruendo...". Il fatto che si tratti in ambedue i casi di citazioni da Incontro con io ribadisce la linea di continuità di cui parlavamo in partenza. Infatti, in Per l'alto mare aperto: "L'Intelligenza che viaggia nel mondo sempre in lotta con la stupidità. Un viaggio difficile, contrastato, un viaggio per spiriti liberi...". Più esplicitamente ancora: "Continuando questo mio viaggio...".

La forma del viaggio comporta in Scalfari un recupero dantesco (Diderot = Virgilio) e uno omerico-dantesco: Ulisse, inteso come "mito" primigenio cui ancorare solidamente la modernità. Comporta una ricostruzione del tessuto culturale, ideale, filosofico, letterario della modernità, con le sue tappe, i suoi crocicchi, i suoi incontri e scontri, ma anche, come ogni viaggio che si rispetti, i suoi ritorni all'indietro, quando risulta necessario. Ma comporta anche, - e su questo aspetto io vorrei attirare di più l'attenzione, forse perché meno visibile, - un'esplorazione a' rebours del proprio passato da parte dell'Autore, fino alle insondabili profondità infantili, in cui un certo interesse, una certa pulsione sono germinati, per fondersi più avanti con le letture dell'adolescenza, della giovinezza, della maturità e... della vecchiaia. È la forma del viaggio, sostengo, che dà a questo libro, pur denso nei suoi contenuti, la sua piacevolezza, il suo fascino discorsivo, la sua capacità di comunicazione con il lettore, che ne segue, persino divertito, lo scorrevole andamento.

La seconda osservazione riguarda il catalogo. Chiunque si sia azzardato a proporre un "canone" (nessuno meglio di me può saperlo), si espone al rischio del famoso (e del tutto ozioso) gioco delle "sottrazioni" e delle "aggiunte". Non di questo intendo parlare. Vorrei invece dire la mia, troppo brevemente, me ne rendo conto, sull'idea di modernità che quel canone esprime. Io la riassumerei in questo modo: la modernità è un pensiero forte, che, a partire da una fiducia illimitata nella Ragione, man mano che si misura rigorosamente (e in mille straordinari modi) con il filtro dell'"io", del soggetto dichiarato e risolutamente monocentrato, perde i suoi fondamenti iniziali, si sfalda, trova nuove forme e, nelle nuove forme, dissolve ogni contatto persino con un residuo di Assoluto. Per questo il canone, pur rimanendo ancorato all'Illuminismo-Diderot, comincia di fatto con Montaigne e finisce con Nietzsche. Il relativismo, s'intende, ne rappresenta l'approdo finale. Ma - se non è un gioco di parole - un relativismo che resta anch'esso solidamente razionale e non perde mai i suoi rapporti con l'umano. E cioè un relativismo che non disintegra né immiserisce i valori, ma, - spero che neanche questo sia un gioco di parole, - li relativizza, riconoscendone intelligentemente la presenza e l'opportunità (ma anche i limiti) all'interno dell'agire storico-umano.

Questo modo di procedere, - che è al tempo stesso contemplativo e lucidamente razionale, introspettivo e storico-critico - produce una vera e propria mappatura del pensiero moderno, che andrebbe esaminata punto per punto, nei suoi accostamenti, non sempre scontati, e nelle singole figure che li compongono e rappresentano.

Confesso che uno dei capitoli che mi ha colpito di più, per comprensibili motivi personali, è quello dedicato a Karl Marx. Si chiede Scalfari in esordio, e lo chiede ai suoi lettori (riprendendo fra l'altro un topos sul quale noi ci siamo già soffermati): "Sapevamo, non è vero? Che in questo nostro viaggio uno degli incontri più significativi sarebbe stato questo [con Marx]". Be', io non lo sapevo: non nel senso che io non sia incline ad attribuire a Marx il ruolo nel percorso storico della modernità che Scalfari gli attribuisce: ma nel senso che non avrei pensato che Scalfari, intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica, fosse disposto a farlo, - e in questa misura. Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l'individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà. Se mai, un lettore incontentabile potrebbe osservare che fra i testi fondativi dell'imperitura modernità marxiana, accanto al Capitale, si potrebbero annoverare, e persino con qualche motivazione in più, gli Scritti filosofici giovanili e i Grundrisse: ma il baricentro del ragionamento non cambierebbe certo granché.

Come tutto questo poi si ricolleghi più in generale all'esperienza pubblica e alla figura politico-intellettuale di Eugenio Scalfari (un altro tratto del viaggio da tener presente), un lettore normale non dovrebbe far fatica a capirlo.

Il corollario è che, secondo Scalfari, la modernità è cominciata, c'è stata ma è anche finita. Intorno a noi i nostri contemporanei sono i nostri posteri e i nostri posteri sono i nuovi barbari. È un pensiero con cui mi sono anch'io recentemente confrontato, ed è - io credo - il pensiero di una generazione e di una storia. Fin dove arrivano questa generazione (forse una multi-generazione) e questa storia (forse più storie, molte storie diverse)? La cultura della modernità dovrebbe fare un ultimo sforzo: capire più esattamente dove la frattura si è verificata e perché, dove le generazioni e le storie più esattamente sono rientrate nella barbarie. La modernità ha un debito aperto con la contemporaneità: bisognerebbe pensarci molto seriamente. Intanto Scalfari ha fatto molto più che la sua parte. Mi è accaduto molto recentemente di sentirlo parlare ad un folto pubblico di giovani e di rimanere stupito, da vecchio docente, della corrente di comprensione, di simpatia, anzi di vera e propria complicità che correva fra loro al di sopra di un abisso di quasi settant'anni e di centinaia di migliaia di esperienze diverse: segno, penso, che i fili non sono del tutto spezzati e forse si possono ancora riallacciare. 
(07 maggio 2010) 

Intervista sulla modernità: parla Eugenio Scalfari




Fonte: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/05/07/news/analisi_incontro-3876733/